LA MIA MEDICINA

Spesso in ospedale i rapporti sono sfuggenti.
Sguardi con i pazienti, cenni con i parenti, concetti espressi in fretta sperando di esserti spiegata comunque.
Vorresti appoggiare la mano su quella spalla ricurva, far emergere un sorriso sotto quegli occhi gonfi …
… ma l’infermiere ti riporta alla realtà…
hai altri 15 pazienti da visitare e alle 13 inizi gli ecocolordoppler, contemporaneamente ti chiamano il collega del pronto soccorso sul telefono del medico di guardia e il neurologo sul telefono di reparto, infastidito per la tua richiesta di consulenza.
Sei stanca, ti sei svegliata alle 6, dopo 20 minuti sei uscita di casa e alle 6.30 sei sotto casa dei tuoi a lasciare il cane, alle 6.45 inforchi la bici e alle 7.01 il treno parte. E ora sei qua in ospedale, sperando di riuscire a prendere un treno decente per giocare almeno un po’ con la bimba prima di cena.
Ma l’equilibrio instabile e forzato è destinato a rompersi.
E si rompe una fredda e buia settimana di gennaio.
La mia piccola di due anni si ammala, febbre alta ed è mogia mogia … poi in rapida sequenza ci ammaliamo io e mia mamma. Soprattutto mia mamma. Vederla ricoverata in ospedale, confusa, soporosa e disfasica mi fa crollare… e non fa bene neanche al piccolino dentro di me.
Recuperiamo tutte, ma a me rimane dentro un senso di angoscia, di profonda stanchezza, di nervoso e di frustrazione.
Passa un mese e inizio la maternità.
Riposo, rifletto e recupero:
Vorrei un posto dove la medicina è ancora umana, dove gli interessi sono i pazienti e non gli obiettivi, dove il brontolio continuo di certi specialisti è solo un brusio lontano, mentre gli affetti sono vicini.
Dove posso mettere la mano sulla mano di un paziente, ed ascoltare le sue storie e le sue paure;
dove il dialogo è una medicina valida come le altre, se non di più;
dove posso applicare i principi della slow medicine per i miei pazienti.
Dopo la maternità, azzecco la seconda stella a destra in cui svoltare e mi ritrovo in un posto nuovo.
Un posto in cui ho il privilegio di accompagnare gli ospiti nell’ultima parte della loro vita: quel tratto di strada dove siamo più fragili, sia fisicamente che emotivamente.
“…ci fosse stato mio marito qua…” … purtroppo da quattro anni quel marito non c’è più ma, per quel che vale, cercherò di proteggerla io.
“…sto abbastanza bene oggi… ” mi dice un’altra paziente accennando un sorriso che debolmente si annulla mentre gli occhi si chiudono e la voce si spegne.
Vedi e rivedi gli anziani ospiti, impari a conoscerli, e ti avvicini – in punta di piedi – anche ai loro familiari, a volte incapaci di accettare ciò che i loro genitori – un tempo così forti da renderli adulti – sono ora diventati.
L’ultimo piano è il mio preferito.
La signora nel letto sotto la finestra, dopo diuretici, morfina e ossigeno, si è appena assopita e il suo respiro è tornato più calmo, i muscoli mimici si sono rilassati dopo la fatica della notte.
Il mio sguardo esce dalla finestra e inizia a vagare tra il campanile della Grazie e l’Angelo del Castello. In mezzo a queste c’è la piazza dove ho studiato, alle mie spalle la casa dove ho vissuto, al di là del parco la casa dove vivo. E qui, dove mi trovo ora, è il posto dove lavoro e sono felice.
Sono tornata a casa.

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