Dai, smettetela.
Io vi guardo, ma voi non mi vedete. Si, è vero, mi curate, mi alzate, mi pesate, mi lavate, ma non mi pare che mi guardiate. Sono qua, ridotto a un fuscello ricurvo.
Apro la bocca, riesco ancora a masticare, ma non a relazionarmi.
Fino a poco tempo fa, lo facevo muovendo la mano sulle grandi lettere che mio nipote mi aveva disegnato su un foglio bianco, ma ora la rigidità del parkinson mi impedisce anche questo.
Però vi vedo e vi ascolto.
Mentre mi lavate, vi raccontate le cose più varie. Ogni tanto sono discorsi divertenti, che ascolto con piacere e mi distraggono. Però ho sempre quella spiacevole sensazione di non esserci, pur essendo lì presente.
Altre volte, proprio non lo sopporto. Sono obbligato a udire discorsi che nella vita di prima non avrei mai sopportato. Come quando viene quell’operatore juventino – un gobbo, insomma – che si vanta dell’ennesimo scudetto. Preferisco il napoletano, almeno è simpatico …certo preferirei qualche aggiornamento sulla posizione in classifica della mia udinese… eppure mi dispiacerebbe comunque troppo non poter partecipare alla conversazione.
Mi dispiace non riuscire a dire neppure ‘buongiorno’, non vorrei essere preso per un maleducato.
Mi arrabbio tanto dentro di me quando non riesco a farmi capire.
I miei occhi sono vivaci, ma tutto il resto è bloccato. Non riesco a far capire i miei bisogni, le mie necessità.
Poi arriva questa dottoressa che mi guarda negli occhi e mi parla. Parla a me. Direttamente.
Ma non lo sa che non riesco a rispondere? Non le hanno passato bene le consegne?
Mi si rivolge dandomi del ‘lei’ e chiamandomi ‘dottore’.
Questo mi riporta a una vita fa.
Quando ero medico nel mio reparto, di cui poi sono anche diventato primario: allora tutti si rivolgevano a me come dottore, e mi portavano rispetto e qualche volta anche soggezione.
Questa dottoressa continua a guardarmi negli occhi. Ma cosa vuole da me? Perché mi parla tanto?
Mi racconta che suo padre, il dottor Rossi, era un mio collega e aveva lavorato diversi anni nel mio reparto.
Certo, me lo ricordo bene. Un bravo medico, abbiamo affrontato molti casi difficili insieme, anche con terapie innovative per quell’epoca … quanto tempo è passato.
Continua a parlarmi.
Mi dice che suo padre le ha raccontato che sono un ottimo medico e una bravissima persona.
Sono o ero?
Mi guarda con rispetto e mi stringe la mano.
Mi chiede se ho dolore, se ho qualche problema … non riesco a risponderle e lei lo capisce … ma forse con i miei familiari o di sera, quando qualche parola mi esce più fluida, riuscirò a farmi capire.
Mi ha riconnesso con me stesso, con il mio mondo, ed è riuscita a fondere ciò che ero con ciò che sono. La globalità della mia persona mi è tornata in mente. No, non sono un fuscello ricurvo da lavare e alzare.
Sono sempre io.
Cara collega – vorrei dirgli – dammi pure del tu.
DAMMI DEL TU, COLLEGA

Una replica a “DAMMI DEL TU, COLLEGA”
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Chiedo scusa, mi permetto di segnalare che andrebbe scritto dirLE (alla cara collega) al posto di dirGLI.
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